Impatto dell'esercizio fisico sul PTSD: una review
Approcciare il PTSD con l'attività fisica: come e perchè.
ABSTRACT
La presente review vuole raccogliere e analizzare l’insieme degli studi a riguardo dell’influenza sul PTSD della pratica fisica presenti in letteratura. La portata degli studi attualmente presenti su questo tema inizia a essere consistente, pur non rappresentando ancora un topic sul quale convergano grandi filoni di ricerca scientifica, il che è un male se si consideri quanto il PTSD si ripercuota, in primis, sulla dimensione corporea umana, come i grandi studiosi nell’ambito ci insegnano.
In questo articolo verranno elencati e raggruppati gli studi scientifici più rilevanti che abbiano preso in esame quanto il praticare esercizio fisico in modo regolare nel corso di uno stress post-traumatico, possa prevenire il suo cronicizzarsi, e in che modo un lavoro in senso psicoterapeutico debba considerarsi suo necessario complemento. L’obiettivo del presente lavoro è quello di sensibilizzare il lettore a riguardo di quanto il canale corporeo debba considerarsi in posizione primaria e centrale, nella presa in carico di un PTSD da parte del personale curante, ponendo l’accento sulla possibilità di intervenire anche attraverso una pratica quotidiana fisica che si integri a un approccio psicoterapeutico.
REVIEW: LA LETTERATURA PRESENTE
La letteratura in ambito psicotraumatologico che riporta dati rigorosi che attestino l’impatto dell’attività fisica sul PTSD, è in espansione ma ancora poco consistente in termini di protocolli standard e linee guida dettagliate su cosa possa giovare a pazienti affetti da PTSD conclamato.
È noto l’impatto del PTSD sul corpo, evidenziato in molteplici studi su riviste di grande autorevolezza in senso scientifico, e ben spiegato nel lavoro di studiosi nell’ambito che tracciano la via della psicotraumatologia del presente, come il conosciuto The body keeps the score di Bessel Van Der Kolk.
Alcune riviste maggiori, come l’American Journal of Psychiatry o il Journal of Clinical Psychology, fanno riferimento a studi molto recenti condotti su pazienti affetti da PTSD attraverso l’applicazione di protocolli standardizzati di esercizi inerenti il corpo: emerge l’importanza generica di effettuare attività fisica di natura aerobica e mirata a sviluppare “resistenza muscolare”, al fine di mitigare gli effetti somatici del PTSD.
Qui di seguito i contributi maggiori e più importanti, elencati in ordine cronologico:
Fetzner & Asmundson (2014) vollero indagare i benefici di una regolare attività fisica di tipo aerobico (nello specifico si trattava qui di 6 sessioni di attività aerobica della durata di 20 minuti su due settimane, quindi tre sessioni settimanali di 20 minuti) su un campione di 33 persone affette da PTSD. Gli sperimentatori divisero il gruppo in 3 diverse sotto-popolazioni: alla prima di queste, durante gli esercizi, venne sottoposta una “distrazione cognitiva” con l’obiettivo di indurre i soggetti a concentrarsi su qualcos’altro che non fosse l’esercizio stesso o il loro corpo; nel secondo gruppo, invece, gli si propose un lavoro di focusing sugli aspetti interocettivi (focalizzarsi sulle sensazioni interne collegate all’esercizio stesso); nel terzo gruppo, infine, venne semplicemente richiesto loro di dedicarsi all’attività fisica in corso. L’obiettivo era cercare di capire in che modo una batteria di esercizi standardizzata e regolare su un gruppo eterogeneo di pazienti affetti da PTSD, avrebbe impattato sui sintomi, e in che modo: in particolare, attraverso il lavoro per mezzo del focusing “interocettivo”, volevano essere indagate le cause del beneficio sul PTSD, e non solo la presenza del beneficio stesso. I risultati tuttavia trovarono poche, se non nessuna, differenze tra i diversi sottogruppi, il che poteva far pensare che esistessero dei fattori comuni ai diversi gruppi che producessero beneficio sul PTSD per mezzo del lavoro aerobico. In particolare, i ricercatori sottolinearono come l’esercizio, in generale, potesse aver favorito un processo di “esposizione interocettiva”, aver cioè promosso un confronto attivo con le sensazione corporee prodotte dall’esercizio fisico. Come sappiamo, una delle difficoltà -se non la difficoltà principale- nel management del PTSD, è gestire l’attivazione somatica in conseguenza dell’emergere alla coscienza dei vissuti traumatici. In questo senso, confrontarsi con le sensazioni somatiche indotte da un esercizio regolare di natura aerobica, potrebbe configurarsi come un esercizio attivo di esposizione a ciò che dal corpo arriva, indipendentemente da quanta attenzione vi si dedichi.
Rosenbaum et al. (2014) su Acta Psychiatrica Scandinavica, pubblicarono uno studio randomizzato che indagava la differenza tra due tipologie di trattamento (con o senza esercizio fisico) proposto a un gruppo di 81 pazienti con PTSD primario (diagnosticato seguendo i criteri del DSM IV, escludendo i casi in cui sarebbe stato meglio parlare di trauma complesso e gli individui affetti da patologiche croniche a livello fisico che avrebbero confuso il processo di analisi); le conclusioni evidenziarono un miglioramento maggiore tra chi trattato anche con l’ausilio di esercizio fisico (in questo caso 30’ di cardio-fitness a settimana fatti nel contesto dell’ospedale, due sessioni da effettuare a casa e un programma controllato di camminata minima -fino a 10000 passi- da fare al giorno per ogni soggetto).
Vancampfort et al. (2016) misero in evidenza attraverso una review (su un campione di circa 1400 persone colpite da PTSD) una correlazione tra iperarousal e attività fisica, concludendo con una riflessione a proposito della possibilità che uno degli effetti benefici del pratica attività fisica in concomitanza di un PTSD fosse proprio il processo di abituazione, per le vittime, agli stati di iperarousal, maggiormente tollerati e gestiti proprio grazie allo svolgimento di attività fisica regolare.
Wolf Mehling et al. (2017), su Journal of Clinical Psychology, osservarono come in un campione di 47 veterani di guerra a cui sottoposero un training di esercizi fisici per un periodo di 12 settimane, insieme a delle tecniche mutuate dalle pratiche mindfulness, gli effetti disregolanti degli stati di iperarousal tipici della condizione di PTSD tendessero a diminuire, consentendo un miglioramento della qualità della vita.
Vancampfort et al. (2017) pubblicarono una meta-analisi effettuata prendendo in esame 5 studi per un totale di 192 pazienti affetti da PTSD a cui fosse stata proposta una riabilitazione psicoterapica integrata a un intervento tramite esercizio fisico; gli autori evidenziarono la presenza di sicuri benefici psico-fisici e una riduzione dei sintomi di iperarousal ed evitamento, arrivando a fine articolo a suggerire genericamente l’adozione di “2 sessioni settimanali di resistence-training insieme a un 150’ di esercizio moderato o 75’ di esercizio vigoroso a settimana diviso in più sessioni”.
Oppizzi e Umberger (2018) eseguirono una approfondita meta-analisi del materiale presente in letteratura, pubblicando uno dei più completi contributi, al momento, relativo al tema “impatto dell’attività fisica sul PTSD”; i punti cardine di questa meta-analisi potrebbero essere sintetizzati in a) maggior impatto sul PTSD di un’attività fisica di tipo aerobico come camminata veloce, salto alla corda, jogging, bicicletta b) crescenti evidenze di un potente effetto benefico della pratica Yoga sui sintomi del PTSD c) importanza di una pratica costante dei training fisici e d) centralità della qualità del sonno migliorata dall’attività fisica come elemento terapeutico nei confronti del PTSD. Vennero inoltre proposte alcune ipotesi a riguardo dei meccanismi sottesi al beneficio prodotto dalla pratica fisica sul PTSD: a) ipotesi espositiva (l’attività fisica ragionata consentirebbe a chi soffre di PTSD di famigliarizzare lentamente con le sensazioni somatiche innescate dalle memorie traumatiche), b) ipotesi regolativa (l’attività fisica consentirebbe di far diminuire gli stati di iperarousal e di fuoriuscire da quelli di ipoarousal) e c) ipotesi fisiologica (regolazione degli ormoni rilasciati dallo stress post-traumatico, liberazione di endorfine, aumentato fattore neurotrofico cerebrale)
Hegberg et al. (2019) esplorarono in una completa review gli articoli che si occupavano della correlazione tra uso di esercizi solo aerobici (escludendo quindi lo Yoga, per esempio, e altre pratiche) e livello di PTSD, prendendo in esame 19 studi eseguiti su soggetti diagnosticati PTSD. I risultati dimostrarono un’evidente associazione tra svolgimento di attività aerobiche e diminuzione dei sintomi di PTSD: gli autori invitarono tuttavia alla produzione di ulteriore ricerca (attraverso studi di tipo RCT) al fine di valutare una possibile causalità tra i due eventi. Questo articolo ha il pregio di strutturare in modo puntuale una serie di ipotesi a riguardo dei meccanismi d’azione dell’attività fisica in termini di benefici sul PTSD.
In particolare, gli autori citarono:desensibilizzazione ed esposizione: è possibile che esporre il proprio corpo a esercizi di natura aerobica anche vigorosa, elicitando una condizione di iperarousal, predisponga il soggetto a interpretare quella stessa alterazione fisiologica come non-patologica in contesti di non-esercizio (per esempio, nel caso di una forte tachicardia ottenuta per via di un esercizio vigoroso, quella stessa tachicardia sarebbe stata idealmente interpretata in seguito come meno pericolosa anche nella vita “reale”)
cognitive impairment: gli autori notarono come non esistessero studi che mettessero in correlazione esercizio fisico e migliori performance cognitive in soggetti colpiti da PTSD. Tuttavia, una robusta quantità di studi inerenti il miglioramento di alcune funzioni cognitive nell’anziano (in particolare funzioni esecutive e memoria episodica) lasciava supporre che gli stessi miglioramenti sarebbero stati riscontrati nei soggetti colpiti da PTSD, anche in età più giovanile (laddove nel PTSD erano quelle stesse funzioni cognitive a essere maggiormente compromesse: memoria episodica e funzioni esecutive)
impatto anatomico e alterazione delle strutture cerebrali: anche in questo caso, gli autori evidenziarono come non esistessero al momento della pubblicazione studi che osservassero la morfologia (variata o meno) di zone specifiche del cervello a seguito di un periodo trascorso effettuando training specifici di esercizi; tuttavia, notarono come molti studi evidenziassero un impatto positivo dell’esercizio aerobico e del “fitness cardio-respiratorio” sulla morfologia di molte zone cerebrali in pazienti anziani – le stesse zone osservate alterate a seguito dello sviluppo di PTSD.
Gli studi a riguardo dell’asse ipotalamo-ipofisi-surrene (HPA) in soggetti sani, dimostrano come l’attività fisica tenda a regolarizzarne il funzionamento: gli autori dell’articolo proposero che un simile effetto benefico, potesse giovare sul funzionamento di quest’asse anche in soggetti colpiti da PTSD. In questa popolazione infatti, si era osservato come lo stress post-traumatico “toccasse” il circuito HPA in risposta allo stress post-traumatico per via di un’alterazione del suo meccanismo di feedback; gli autori fecero notare tuttavia che studi sull’asse HPA in correlazione al PTSD sembravano troppo poco numerosi per fornire dati sicuri da cui trarre conclusioni in tema.
Infine, gli autori osservarono come molteplici evidenze in letteratura si riferissero alla correlazione esistente tra alterazioni del sistema immunitario e la presenza di stress prolungato, in particolare in relazione al concetto di infiammazione; in letteratura infatti è presente una letteratura ampia a proposito degli effetti de-infiammatori dell’attività fisica, con ricadute benefiche su vari aspetti della vita dell’individuo tra cui la qualità del sonno. Gli autori notarono come il sonno sia da ritenersi primariamente coinvolto nella risoluzione di un PTSD, dato che nel corso del suo svolgimento vengono svolte importanti operazioni di elaborazione del dato mnestico (cognitivizzazione) (Pagani et al., 2017)
ASPETTI NEUROCOGNITIVI E NEUROFISIOLOGICI: ALCUNE IPOTESI SPECULATIVE
Il lavoro di Hegberg et al., rappresenta il contributo al momento più completo in letteratura; in termini generali, come in esso viene esplicato, esistono diverse teorie a riguardo dei meccanismi che rendono l’attività fisica aerobica uno strumento potenzialmente in grado di integrarsi al trattamento standard per il PTSD, che potrebbero essere ascritte a 4 ipotesi/punti-cardine:
IPOTESI DELL’AUTOREGOLAZIONE
Usare il corpo a fini regolativi è da considerarsi una strategia di mastery, dove per strategia di mastery intendiamo un comportamento attivo che promuova il recupero dello stato di “padronanza” in termini di regolazione emotiva, quando questa fosse andata perduta. Esistono diverse modalità di recupero della mastery: il corpo rappresenta un modo primitivo, ma spesso efficace, di rientrare nei ranghi di quella che Daniel Siegel chiama “finestra di tolleranza”. Svolgere attività fisica, consente di placare stati di disregolazione neurofisiologica quando questi siano eccessivamente tendenti verso l’alto (iperarousal) oppure di promuovere un “ritorno alla vita” quando ci si senta affossati entro stati di disattivazione apparentemente invincibile (ipoarousal). Sappiamo che il PTSD produce disregolazioni in senso sia di iperarousal, che di ipoarousal.IL CORPO DISSIPA IL TRAUMA
Questa espressione mutuata dal lavoro di uno dei riferimenti mondiali per l’approccio somatico al trauma, Peter Levine, esprime il senso di lasciare andare via il vissuto traumatico per via corporea. Gli studi di Pat Ogden (allieva dello stesso Levine) si focalizzano sulla questione relativa allo sviluppo e alla realizzazione delle “tendenze all’azione” bloccate nel corso e in seguito al trauma. Levine si pone sulla stessa linea, arrivando da un lungo studio del trauma in senso neurobiologico ed etologico, attraverso l’osservazione gli animali.
Gli animali, quando non provenienti da storie di sviluppo traumatico, rispondono al singolo trauma in modo più efficace, “scrollandolo” via dal corpo e ripristinando per via corporea lo stato -neurofisiologico- antecedente il trauma stesso. L’uomo non sempre è in grado di fare questo: nonostante la sostanziale sovrapponibilità interspecifica delle parti più antiche del cervello osservabile negli animali vertebrati, il sistema nervoso umano è dotato di alcuni potenti strumenti di memorizzazione e problematizzazione della realtà esperita, che paradossalmente conducono a una memorizzazione eccessiva e distorta del trauma stesso.
Levine in questo senso parla di un eccesso di “energia” fisica che, non potendo svilupparsi in senso biologico a causa dello stato di profonda impotenza sperimentato durante il trauma, rimane nel corpo e lo perturba (stress post-traumatico): questo aspetto della teoria di Levine precede ed è assimilabile alla già citata idea di “tendenze all’azione” usata da Pat Ogden, tendenze all’azione che dovranno essere idealmente “scaricate” per via sensomotoria, quindi attraverso il corpo (primo veicolo e naturale sede dei movimenti di fuga/attacco elicitati dalla minaccia), con alcune sfumature semantiche (Pat Ogden parla di tendenze all’azione come di un movimento più finalizzato, Levine di un troppo pieno che vuole essere scaricato).
Lo sport, in questo caso, potrebbe essere pensato come veicolo di scarico di tendenze all’azione maturate durante il trauma. Sempre Levine, descrive come uno degli effetti somatici del PTSD siano tremori, eccessiva sudorazione, mani fredde: dal suo punto di vista segni medici di questo tipo ci racconterebbero di una risposta autonoma del sistema nervoso centrale bloccato in una anormale, protratta modalità di “difesa” in previsione di un ipotetico, futuro nuovo momento traumatico. Levine, e con lui altri studiosi dell’ambito, interpreta questi segni e sintomi come “spie” corporee di qualcosa che necessita di essere evacuato o appunto dissipato (per esempio una forte rabbia che non è riuscita a esprimersi, una fuga impossibile rimasta intrappolata nel corpo).
Se per esempio osserviamo un animale bloccato in una condizione di freezing, e lo osserviamo fuoriuscirne, vedremo che l’animale scarica attraverso il tremore lo stato di freezing stesso: alcuni animali -come gli orsi- tremano tendenzialmente di più (sono sconquassati da forti tremori che poi si placano), altri meno. Il tremore rappresenta una risposta naturale funzionale a dissipare il terrore e l’ansia: alcune scuole di psicoterapia (afferenti, anche se non direttamente, alla scuola di pensiero della psicoterapia sensomotoria) ne prescrivono l’autoinduzione in modo volontario come strumento per scaricare il corpo. Quello che sembra essere necessario, in effetti, in natura, è che il processo di “scarico della paura” a seguito di un forte shock o trauma, avvenga in modo completo, fino in fondo.
Sappiamo che il comportamento animale ricapitola, in un certo senso semplificato, il nostro stesso comportamento, e che a volte dall’osservazione degli animali possiamo imparare ciò che difficilmente riusciamo a osservare in noi. Il lavoro fatto da Peter Levine ci insegna che il corpo, a seguito di una forte attivazione, deve scaricarsi: lo sport, in questo senso, fornisce un contenitore ideale e modulato/modulabile, al fine di esprimere con successo queste tendenze bloccate.
L’immagine sopra riportata descrive una sequenza ideale che dallo stato di immobilità porta, attraverso la corsa, al recupero di una condizione di empowerment (senso di potere). Il razionale dell’utilizzo dello strumento “corsa” sarebbe in questo caso lo sviluppo e il compimento della tendenza di attacco/fuga, rimasta congelata al momento del trauma (Levine, molto efficacemente, spiega come per creare il trauma debbano associarsi immobilità e paura: in senso clinico occorrerà dissociare e risolvere questi due aspetti dell’esperienza di vita del paziente, per liberarlo dalla trappola creata dal post-trauma). Qui un approfondimento su questi aspetti.
TERAPIA ESPOSITIVA INTEROCETTIVA
La terapia espositiva fonda il suo razionale sul concetto di rehearsal, cioè di reiterazione e abituazione, il che la rende uno strumento di coping efficace nei casi in cui la tendenza sarebbe invece quella di “evitare”. Ripetere un discorso da fare in pubblico, frequentare luoghi percepiti come pericolosi per poi abituarvisi, dedicarsi alla lettura di stati interiori di paura e terrore, sono appunto esempi di strategie espositive usate per rendere meno “attivanti” quegli stessi stimoli, interiori o esteriori che siano.
Una delle conseguenze del PTSD è il protrarsi dell’evitamento interiore ed esteriore di tutto ciò che concerne il trauma e il contesto in cui questo avvenne: parliamo di “fobia degli stati interni” per indicare il risultato di un evitamento totale, da parte dell’individuo, di ciò che potrebbe elicitare una riattivazione corporea disregolata (vengono evitati i trigger interni -pensieri, immagini- che scatenerebbero, nuovamente, l’accesso traumatico). Svolgere attività fisica consentirebbe secondo questa ipotesi di riappropriarsi di un senso di maggiore controllo, tramite esposizione ed abituazione, sulle sensazioni corporee indotte da attività fisica regolare.EFFETTO ANTIDEPRESSIVO E ANSIOLITICO DELL’ESERCIZIO FISICO
Molteplici studi hanno valutato, e dimostrato, l’impatto positivo dell’esercizio fisico su sintomi di natura depressiva e ansiosa ingenerati da molteplici, diverse storie di vita. Se consideriamo la teoria a “network” dei disturbi mentali, promossa da Denny Borsboom, secondo cui i sintomi psicopatologici sarebbero da considerarsi come orizzontalmente presenti sulla scena psicologica dell’individuo, connessi e interdipendenti gli uni dagli altri, potremo considerare come l’impatto dell’attività fisica sul PTSD possa avvenire in modo anche indiretto, andando cioè a colpire alcuni dei sintomi collaterali dello stress post-traumatico stesso come l’insonnia grave, o l’ansia generalizzata. Consideriamo per esempio come migliorando la qualità del sonno, si migliorino in generale le prestazioni cognitive di un individuo affetto da PTSD, impegnato quotidianamente nel fronteggiare la gestione del disturbo. Non va dimenticato che lo stress post-traumatico si gioca su un costante lavoro di adeguamento a una realtà percepita come minacciosa: fronteggiarla in uno stato di prostrazione da carenza di sonno, la rende oltremodo allarmante (già Pierre Janet descriveva come in una condizione di “stanchezza psichica” fosse più facile, per un evento potenzialmente traumatico, radicarsi in profondità nella mente dell’individuo che ne fosse vittima). Lo stesso potremmo dire per il vissuto depressivo da “esaurimento”: procurare sbilanciamenti o innalzamenti del tono umorale per via corporea (per esempio stimolando la produzione di endorfine a seguito di una sessione di esercizio aerobico protratto), andrebbe considerato come un tentativo di migliorare la propria qualità della vita, in generale, verso una successiva liberazione dal PTSD primario.
nota: questo articolo è anche pubblicato su Psychiatry On Line, completo di bibliografia