“La generazione ansiosa”: recensione approfondita e valutazioni
A proposito dell'ultimo libro di Jonathan Haidt, psicologo sociale
PREMESSA: per ragioni di comodità in alcuni passaggi si è usato il maschile sovraesteso
“La generazione ansiosa” viene tradotto e pubblicato recentemente da Rizzoli; è un saggio da un titolo forte, che però merita una lettura approfondita, vista l’attualità dei suoi contenuti, e i dati allarmanti riguardanti la salute mentale dei giovani, da più parti denunciate.
Il volume si presenta come una sorta di mega-indagine, una vera e propria inchiesta giornalistica che mette in ordine e sistematizza i più recenti dati a riguardo della salute mentale dei giovani in relazione all’utilizzo di smartphone e social-media, con un focus sul periodo 2010-2015, cornice temporale che ha ospitato diverse innovazioni tecnologiche largamente disruptive, tutte insieme (iphone, app gratuite in cambio di pubblicità, social media, telefoni dotati di telecamere frontali, internet per tutti sempre e ovunque), in grado di avviare un cambio di paradigma a livello di relazioni e comunicazione tra gli individui -per le fasce d’età più giovani coincidente con quello che l’autore chiama, un po’ drammaticamente, la “Grande Riconfigurazione dell’Infanzia”.
Qui ne faremo una recensione approfondita, cercando di cogliere gli aspetti più importanti di quello che l’autore ci vuole passare.
Jonathan Haidt è un professore universitario a NYC, e già in precedenza, con questo libro, aveva indagato la salute mentale giovanile; i suoi studi si posizionano al confine tra la psicologia sociale e la sociologia: ha anche avviato un sito da usare come strumento a latere della lettura, questo: https://www.anxiousgeneration.com
Vediamone alcune parti di “la generazione ansiosa” in dettaglio, procedendo nella lettura:
Nella prima parte del suo lavoro H. presenta il suo concetto di “Grande Riconfigurazione dell’Infanzia”: la sua idea è che dal 2010 al 2015 qualcosa sia accaduto, e che l’infanzia abbia preso forme nuove, correlate all’introduzione di device tecnologici estremamente additivi, precedente a un preoccupante aumento di disturbi internalizzanti per le femmine in età adolescenziale ed esternalizzanti per i maschi nella stessa età. Il libro è stato scritto nel 2023, è quindi molto attuale: il problema del “malessere psicologico nei giovani” è sulla bocca di tutti.
Il vero fattore discriminante, secondo Haidt, è rappresentato dalla pervasività di utilizzo dei device, che da un certo tempo in poi (l’Iphone è stato introdotto nel 2007), ha garantito di essere tutti sempre connessi -ancor di più dopo l’introduzione dei social network
Haidt ragiona sul fatto che se il malessere dei/le ragazz* in età adolescenziale fosse causato da elementi di macro-contesto nel mondo reale (come crisi economiche o guerre) altre epoche avrebbero dovuto essere più tragiche (come il 2009): no, secondo l’autore parliamo di qualcosa successo nella prima metà degli anni ‘10, e non “esterno”/riguardante guerre, epidemie o altro. Anzi, in questi ultimi casi -l’autore sottolinea-, a volte le comunità fanno gruppo e sperimentano paradossali effetti positivi in senso psicologico
Nel secondo capitolo, Haidt parte da alcune considerazioni riguardanti lo sviluppo “sano” di un bambino, soprattutto nella lenta gestazione delle sue abilità psicosociali/cognitive: tante di queste abilità, il bambino le sviluppa impegnandosi in un’attività sincrona e basata sulla sintonizzazione emotiva con l’altro -attività come il gioco sociale.
L’autore si chiede cosa produca un bombardamento mediatico operato su di un cervello malleabile come argilla negli anni cruciali, anni come quelli della preadolescenza, arrivando a parlare di un passaggio da un’“infanzia basata sul gioco” ad un’“infanzia basata sul telefono”.
Haidt parla di una “riconfigurazione” vera e propria dell’infanzia, che attraverso il telefono sarebbe stata espropriata delle attività che evoluzionisticamente sarebbero state più importanti (come appunto il gioco sociale sincrono, la sintonizzazione affettiva, l’autoregolazione nel gruppo dei pari). Sottolinea a proposito di questo l’importanza del gioco “rischioso”, corporeo, citando diversi studiosi che lo approfondiscono (si veda per esempio questo studio): la natura del bambino è antifragile, necessita cioè di “perturbazione e stress” per evolvereNel quarto capitolo l’autore apre il macro-capitolo “pubertà”, età particolarmente delicata in termini di “finestra di apprendimento” soprattutto a livello culturale/di conoscenza (si veda questo approfondimento su “La mente adolescente” di Daniel Siegel): qui pone il problema degli “inibitori di esperienze” (la cultura dell’iperprotezione che Haidt chiama safetyism e la dipendenza da smartphone), e riflette sull’assenza di riti di passaggio (almeno non nel mondo online, esente da questo tipo di logiche)
Proseguendo nella lettura del libro, Haidt fa un veloce excursus storico a partire dal lancio del primo Iphone nel 2007, attraverso la creazione delle prime app (prima a pagamento, poi sostenibili a partire dalla pubblicità) fino ai giorni nostri; parla quindi del notorio “circuito di ricompensa” e di come si possa sviluppare una dipendenza da smartphone, che ritiene “attivamente progettata” negli anni del lancio dei primi social network dai fondatori delle app stesse. Si trattava di ingenerare dipendenza nei ragazzini che avrebbero usato il social, obbligandoli a passare più tempo possibile sulle piattaforme. Ma come fare? Il meccanismo è quello della ricompensa “non garantita”. Così come avviene nel gioco d’azzardo, far seguire a una determinata azione una ricompensa sviluppa un apprendimento veicolato dal rilascio di una certa quantità di neurotrasmettitori: la ricompensa non dev’essere però garantita, per poter ingaggiare in modo più forte chi ne dovrebbe fruire -si evita così l’abituazione ad essa e il darla per “scontata- : il meccanismo è largamente studiato ed è appunto alla base del meccanismo che regge (e avvia) il disturbo da gioco d’azzardo patologico.
In più, Haidt ragiona sull’elemento “attivo” inerente gli aspetti di rinforzo, ovvero la possibilità da parte dei fruitori di essere in prima persona coinvolti, essendo che l’oggetto del reward è la propria immagine, la rappresentazione sociale di sé. In questo modo, Haidt sostiene, si arriva a un passaggio fondamentale, la generazione di un meccanismo di aggancio basato non solo su trigger esterni (come la notifica, il suono che richiama l’utente al device), ma su trigger interni, “formulazioni mentali”, “call to action mentali” in grado di attivare il soggetto alla compulsione e di disturbare il normale flusso dei suoi pensieri; veri e propri “pensieri-trigger” sospinti alla coscienza dalla “fame” di rilascio neurotrasmettitoriale, come d’altronde accade in ogni dipendenza: “chissà se avrò ricevuto notifiche”, “devo assolutamente controllare”, etc.Correlazione? No, causa. Proseguendo nella lettura, Haidt propone con forza l’idea che i disturbi psicopatologici osservati a partire dalla finestra temporale 2010-2015, debbano essere attribuiti ai prima descritti cambi di abitudini a riguardo del rapporto con gli oggetti tecnologici. Mette insieme una mole impressionante di dati, che si possono recupare qui.
Nella quarta parte del libro, Haidt seleziona e presenta ulteriori studi, a tratti assumendo un tono paternalistico, moralizzante: unici elementi degni di nota, la questione del maggior impatto dell’utilizzo dei device sulle ragazze, e il tema del distacco progressivo dagli ambienti naturali, alla cui frequentazione l’evoluzione ci avrebbe chiamati: a contatto con la natura, e in generale nella “realtà”, siamo esposti sia a dolore (un rifiuto “dal vivo”, un infortunio corporeo) che ad esperienze trasformative e positive, anche in senso spirituale (per mezzo di attività corali, fatte insieme, funzionali appunto al trascendere -come assistere ad un concerto dal vivo).
Che fare, dunque?
La seconda parte -più breve- del volume, è incentrata su quello che i governi, le scuole e i genitori dovrebbero fare per contrastare il processo di “riconfigurazione dell’infanzia” citato dall’autore.
I capitoli che si susseguono in questa seconda parte, sono per lo più ripetizioni di due concetti fondamentali:
è necessario rivedere e ripensare le norme (e anche le leggi) con cui permettiamo agli individui minorenni di accedere alle pagine internet. Il problema che l’autore pone in tutto il libro, viene anche qui riproposto: abbiamo concesso una libertà smisurata e non protetta alla navigazione su internet, e allo stesso tempo stiamo iper-proteggendo nel mondo reale i bambini e gli adolescenti, inabilitandoli alle esperienza di crescita fondamentali
riprendendo il tema prima accennato, l’autore suggerisce di contrastare la tendenze al safetyism, all’iper-protezione, lavorando (pensando alle nuove generazioni) per la promozione di una maggiore connessione alla vita reale, offline
In conclusione, il volume come prima accennato rappresenta un’indagine -scritta in modo semplice, spesso ridondante- a riguardo degli impatti dell’utilizzo di smartphone e social media sulla salute mentale di ragazz* cresciuti nel periodo “critico” tra 2010 e 2015.
Le parti più interessanti del volume sono quelli inerenti gli studi a riguardo del potere dipendentogeno dei device tecnologici: non rivelano nulla di veramente nuovo, ma sistematizzano gli studi che negli ultimi anni sono stati pubblicati, fornendo prove convincenti a riguardo di una effettiva causalità tra l’immissione nel mercato dei suddetti strumenti tecnologici e il peggioramento della salute mentale delle generazioni che, in quegli anni, si stavano formando.
Declassare una valutazione approfondita come quella eseguita da Jonathan Haidt a “boomerismo”, “trombonaggine” o generico “luddismo”, equivale a non prendere seriamente in considerazione la questione, problematizzandola come è necessario fare. Giungere alla conclusione che “è sempre successo così”, che “ogni cambio di paradigma ha pro e contro”, rischia nuovamente di lasciare tutto così com’è, senza che nessuno faccia nulla nè per avallare, né per modificare/raddrizzare/intervenire sullo stato delle cose.
Perchè inoltre -l’autore si chiede-, spostiamo sempre la questione su problemi “precedenti” che sarebbero la causa “prima”, originaria dei problemi di dipendenza dei ragazzi? Non possiamo intervenire su entrambi i momenti del problema, su tutti gli elementi in gioco di questo fenomeno, senza accanirci su “cosa venga prima” -domanda peraltro difficile, se non impossibile, da indagare?
Tendenzialmente, abbiamo a che fare con una nuova, subdola e ormai endemica nuova forma di dipendenza comportamentale, rinforzata da meccanismi neurobiologici invincibili e inevitabili, soprattutto in chi ha il cervello in maturazione. La sensazione tuttavia è che, al momento, questa nuova forma di dipendenza non sia veramente problematizzata né pensata come tale: altre questioni sembrano sempre più attuali, forse perchè esiste un qualcosa da combattere attivamente, in senso fisico. Perché viene combattuta così ferocemente la cannabis legale, per fare un esempio, e ci si muove con lentezza da pachiderma nel normare l’accesso a siti dannosi per la salute mentale di individui in pieno sviluppo?
Nella parte finale di questo libro, Haidt osserva che sarebbe sufficiente ipotizzare l’intervento di aziende terze coinvolte al fine di controllare che i ragazzini che accedono a social o siti di pornografia siano effettivamente nell’età per farlo: non necessiteremmo di chissà quale tecnologia, sarebbe sufficiente un portale a cui autenticarsi con il proprio documento d’identità, che intercedesse per il soggetto stesso quando questi dovesse entrare in un determinato sito -garantendogli/le allo stesso tempo l’anonimato.
In ultima analisi, i limiti di questa indagine sono di ordine strettamente statistico: pur con questa enorme mole di dati, sembra difficile parlare di una causalità diretta: troppe variabili confondenti sporcano gli esperimenti, rendendo complicato tracciare una linea causale netta (per ora).
É indubbio tuttavia che a un’osservazione attenta, gli effetti dell’utilizzo compulsivo di uno smartphone -con tutto quello che al suo interno vi si possa rintracciare- sono evidenti, almeno agli occhi di un operatore della salute mentale: vanno dal modellare l’architettura dell’attenzione, al “bucare” la forma del pensiero (i trigger interni di cui prima scrivevamo, pensieri intrusivi in grado di portare l’attenzione al device, obbligandoci compulsivamente a ritornare ad esso) fino ad alterare il circuito del reward ingenerando una dipendenza comportamentale “nascosta” -allo stato delle cose accettata socialmente, per nulla problematizzata.
Recentemente è stato pubblicato un articolo abbastanza stupefacente, che indaga il concetto di “salienza” in relazione allo smartphone; il punto di questo studio era dimostrare come la semplice presenza del telefono nei pressi di un individuo, fosse in grado di assorbire una quota significativa delle sue capacità cognitive, di fatto diminuendole.
Si tratta di uno dei primi studi che indagano l’effetto della semplice presenza dello smarphone sulle capacità cognitive e attenzionali di un individuo, senza che necessariamente vi sia un altro compito da svolgere o un’interazione fisica con il telefono. Inoltre, gli autori sottolineavano che l’effetto pareva presentarsi anche nella consapevolezza a riguardo dello spegnimento del telefono stesso, o con lo schermo non visibile, cosa che dovrebbe farci ragionare sul potere che questo oggetto ha nel contesto delle nostre vite quotidiane. Sembrerebbe esistere, gli autori spiegano, una sorta di bisogno “sub-cosciente” di “monitorarlo”. Concludono con un consiglio chiaro: “however, our data suggest at least one simple solution: separation”.
Tornando e concludendo sul libro di Haidt, La generazione ansiosa rappresenta una fotografia di estrema attualità dello stato di salute mentale delle generazioni dei ragazzi nati a partire dalla seconda metà degli anni ‘90, con un focus sulle implicazioni dei profondi sconvolgimenti in campo tecnologico che a partire dagli anni ‘10 del 2000, si sono succeduti con impressionante velocità.
Al centro della sua indagine, Haidt pone i rischi di una forma endemica di dipendenza comportamentale che attribuisce all’uso pervasivo di device tecnologici portatili, fornendo alcune indicazioni generiche su temi di “ecologia della mente”, aiutando il lettore a porsi in una relazione consapevole con questi strumenti tecnologici, finalmente e coraggiosamente problematizzando la questione.