Lavorare con le fotografie in psicoterapia
Judy Weiser e il lavoro con il lutto in psicoterapia
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Judy Weiser e il lavoro con il lutto in psicoterapia
La psicoterapia online negli ultimi due anni ha trovato un boom mai visto prima; nell’aprile del 2020, il centro medico Santagostino di Milano arrivava a erogare quasi 18000 colloqui di psicoterapia mensili, numero oggi presumibilmente aumentato, se non raddoppiato.
Lavorare online presenta punti di differenza dal Setting tradizionale, con aspetti per certi versi “implementati” rispetto al normale “ambiente” di lavoro: ne abbiamo scritto diffusamente qui.
Uno degli strumenti che lo psicoterapeuta può adottare nel lavorare online, è il lavoro tramite fotografie.
In questo articolo cercheremo di raccogliere alcuni spunti che possano aiutarci a capire in che modo e perché adottare questo strumento terapeutico con pazienti online (ma non solo).
Come primo punto da notare, occorre distinguere tra fotografia terapeutica e fototerapia:
Nel caso della fotografia terapeutica parliamo di uno strumento di espressione di un individuo che desideri usare la fotografia come “strumento” di espressione di sé, e usi le sue stesse fotografie come modo per comprendere meglio aspetti della propria personalità. Qui un esempio. La fotografia terapeutica pone interrogativi su due piani: come la persona usa la macchina fotografica, e cosa fotografa. Lo stile di fotografia, così come il contenuto della foto in sé, può portare alla luce parti del mondo interno dell’individuo non necessariamente simbolizzabili solamente attraverso la parola. L’arte, per dirla attraverso il lavoro di Massimo Recalcati, lavora con i “resti”, quella parte cioè dell’esperienza dell’individuo non simbolizzabile per via verbale. In questo senso, possiamo interpretare l’atto artistico creativo, come appunto quello della fotografia, come un puro “esprimersi” della parte più nascosta della personalità di un individuo, che la parola non riuscirebbe a rappresentare/simbolizzare in modo efficace.
La fototerapia, invece, è uno strumento da integrare al lavoro di psicoterapia solamente verbale. In questo caso, le fotografie vengono usate come spunto per riflettere su aspetti lasciati “fuori” dal normale lavoro di psicoterapia.
Qui di seguito prenderemo alcuni spunti trovati in rete a proposito della fototerapia, basandoci sul lavoro di Judy Weiser, la personalità più conosciuta al mondo in questo ambito.
Judy Weiser lavora da moltissimi anni con le fotografie (il primo lavoro a sua firma risale al 1975) , e ha creato un centro di ricerca/sperimentazione sull’uso delle fotografie in ambito clinico, raggiungibile qui: https://phototherapy-centre.com/
Vediamo alcuni aspetti su come le fotografie possano essere integrate al lavoro di psicoterapia:
come primo punto, nel sito di Judy Weiser leggiamo come le due modalità di lavoro (fotografia terapeutica e fototerapia) possano essere usate anche insieme, una in modo complementare all’altra; il lavoro di fototerapia fatto in seduta, per esempio, potrebbe spingere un individuo a effettuare in autonomia degli scatti fotografici per esprimere parti di sé o rappresentazioni relative alla propria storia, anche al di fuori del contesto della psicoterapia.
il sito contine numerosi riferimenti a persone che, nel mondo, lavorano con la fototerapia e con la fotografia terapeutica; scopriamo una moltitudine di fotografi o psicologi impegnati su molteplici ambiti della clinica, dal lutto, ai DCA, alle malattie gravi
la fototerapia è da considersi una variante dell’arte-terapia, come qui argomentato, con alcuni vantaggi peculiari, per esempio il mantenimento di una certa “oggettività” nell’uso di fotografie (per esempio anche relativamente all’immagine di sè in foto), cosa che nella “semplice” arteterapia non sarebbe possibile (essendo totalmente soggettiva, direttamente in contatto con la parte più creativa e pre-cognitiva, non verbale di sè); in entrambi i casi si tratta di pescare nella realtà metaforica, ricca di immagini del mondo interno non mediato dalla parola. La fototerapia, inoltre, non richiede nessuna particolare preparazione iniziale, cosa che invece accade nell’ambito generale dell’arteterapia
come osservato dalla stessa Weiser nel sito, lavorare con le foto significa tracciare una linea immaginaria a collegare i diversi momenti vissuti dalla persona, ritratti dalle fotografie; allo stesso modo, è possibile che le fotografie parlino anche degli “scopi” dell’individuo, delle sue “traiettorie” di vita; nell’introduzione al suo sito (https://phototherapy-centre.com/italian/), la Weiser osserva come ciò che un soggetto trae da una fotografia, è in realtà soggettivo, “estremamente” proiettivo; è come se, in un certo senso, la fotografia si ponesse come uno stimolo ambiguo e ricco, da cui l’individuo trarrà considerazioni sue personali, in grado di raccontarci qualcosa a proposito del suo mondo interno, in modo estremamente personale e intimo. Nei suoi workshop, Judy Weiser usa un set di fotografie molto vecchio, in bianco e nero, tra le quali chiede ai partecipanti di isolare una o più fotografie per lui/lei rappresentativa: passa poi all’”analisi della scelta”, per capire insomma per quale motivo e su cosa sia stata basata la scelta stessa, nell’idea appunto che sia un’azione totalmente proiettiva, basata su “eventi interni” (si veda qui per approfondire)
altro elemento importante da cogliere nel sito, la questione dell’autoscatto, da intendere come “evento” in grado di raccontarci a riguardo dell’auto-rappresentazione del soggetto che lo esegue.
Immergendoci nei riferimenti del sito di Judy Weiser, e effettuando ricerche su google, troviamo un articolo di Dario Castellaneta (qui scaricabile per intero) che sintetizza in modo efficace le modalità con cui in psicoterapia si possa lavorare con le fotografie, in particolare categorizzando 5 tipologie di fotografia da usare in terapia. Leggiamo dall’articolo di Castellaneta:
Le immagini adoperate dalla tecnica di fototerapia sono di cinque tipi diversi, così come li ha definiti Weiser. Per prima cosa al cliente viene chiesto di mostrare le foto che fanno parte di una sua selezione personale. Quasi tutti custodiscono album di famiglia o piccole raccolte di immagini fotografiche, dalle foto di classe ai ricordi di viaggio ecc. Questo primo gruppo di fotografie funziona come un rapido innesco del processo di rievocazione. Davanti a queste immagini ci viene chiesto normalmente di descriverne l’occasione, di ricordare gli eventi che le hanno accompagnate, di esprimere giudizi sulle persone e le cose rappresentate, stimolando l’apertura di un racconto autobiografico a cui ci si lascia andare con facilità. Mostrare le proprie foto di famiglia può servire alla ridefinizione della propria identità, permettendo di includere interpretazioni che vadano al di là della posa e della facciata. Spesso infatti le foto di famiglia sono costruite secondo criteri che esprimono spazialmente le relazioni sociali e di potere interne alla struttura della parentela: la coppia dei genitori e i membri più anziani in centro con ai lati i figli maggiori e in basso quelli più piccoli, collocate più in disparte, o distanti sullo sfondo, le persone che non fanno parte della famiglia biologica. Questa attività di descrivere le proprie foto è anche un gioco abbastanza comune nella vita quotidiana, dove tuttavia si addice più felicemente a chi ha intenzione di trasmettere un particolare messaggio, di tipo storico generazionale, oppure di costume e di appartenenza sociale. Pure, una tale attività presuppone negli altri una notevole capacità di ascolto il più delle volte simulata. Quello dell’album di famiglia è a tutti gli effetti un gioco linguistico che funziona bene entro limiti precisi, e cioè che i partecipanti siano effettivamente imparentati. La richiesta di giocare questo gioco di fronte all’analista farà emergere parole e atmosfere diverse.
Un secondo gruppo di foto che vanno selezionate sono quelle scattate di propria mano. Queste serviranno a sollecitare interrogativi in direzione introspettiva e potranno chiarire i motivi inconsci che hanno portato a scattare una foto in quel particolare istante, o far luce sull’esigenza inconscia soddisfatta da una certa inquadratura. Il semplice fatto di avere avuto con sé la macchina fotografica quel giorno e non un altro, il semplice gesto di portare l’obiettivo agli occhi, sono già di per sé elementi significativi. In questo tipo di foto il coinvolgimento emotivo può essere più o meno alto e variamente ricco di contenuti simbolici che sarà compito dell’analista portare in superficie. A questo livello comincia a divenire importante l’interpretazione di istanze di censura e di controllo, che però si rivelano cruciali in un terzo tipo di scatti: quelli che ritraggono la persona del cliente.
Questo terzo gruppo includerà autoscatti, fotoritratti e fototessere, in cui il volto è in primo piano e l’atteggiamento di chi è in posa comunica il sentimento destato davanti all’obiettivo. Roland Barthes ha così descritto nel suo libro La camera chiara quel senso di ansia e di timore che lo coglie allorché subisce una fotografia: «in quel momento io vivo una micro-esperienza della morte».5 Dall’osservazione di foto in cui il soggetto è ripreso a sua insaputa emergono i tratti di sé più nascosti, espressioni e gesti che, non essendo controllati al momento dello scatto, offrono indizi e appigli per l’interpretazione. Il fatto che questi ritratti accidentali siano piuttosto rari aggiunge un carattere di sorpresa e di fascinazione verso la propria immagine. In essi non si manifesta quella resistenza narcisistica implicata dal primo piano. È noto che quando un fotografo va in cerca di un’espressione il più possibile naturale sul viso dei suoi modelli, spesso lo fa scaricando numerosi rullini. Questo senz’altro aumenta la possibilità di buona riuscita, perché quando il soggetto si abitua alla macchina fin quasi a dimenticarsene allora le sue difese cadono. In questi casi la naturalezza è un effetto ottenuto a prezzo di artifici messi in atto dal fotografo: se riesce a distrarre i suoi modelli, a farli pensare ad altro, a metterli a proprio agio, è anche in grado di dirigerli come farebbe un regista con i propri attori.
Un quarto genere di fotografie utilizzato durante le sedute analitiche è costituito da foto scattate su indicazione del terapista. Si tratta di foto il cui tema può venir imposto oppure concordato, ma sempre scelto all’interno di un ventaglio offerto dall’analista. Le fotografie fatte seguendo questo ordine avranno valore di prove, l’analista ne ricaverà elementi di discussione mettendo in rilievo figure ricorrenti, suggerendo motivi e esplicitando altre eventuali linee di indagine, più difficilmente percorribili attraverso la sola verbalizzazione. La foto supera facilmente le difese di un soggetto che rifiuta il dialogo, permettendo al terapista di rivolgere domande intorno alle foto scattate dal paziente evitando di farlo sentire sotto esame. In questi casi ciò che più conta è l’aderenza a un tema predefinito, e non tanto la padronanza di una tecnica. Prioritario è l’interessamento verso un particolare problema, la focalizzazione dell’attenzione verso un aspetto del mondo e la possibilità di esprimersi attraverso un canale che non richiede più di tanto impegno o manualità. Questo rapporto di committenza tra l’analista e il suo cliente comprende l’uso attivo della fotografia, trasforma lo spettatore in autore, e spesso si conclude con il lavoro in camera oscura e con l’esposizione delle foto al pubblico – cosa che in qualche caso può risultare un avviamento alla fotografia professionale. Va anche detto che la fototerapia incoraggiando un uso artistico della macchina fotografica, mentre ottiene una preziosa testimonianza sulla personalità dell’autore, d’altra parte stuzzica la sua vanità e ne aumenta l’autostima.
La quinta e ultima tecnica di fototerapia si basa sulle foto facenti parte di una collezione ad hoc. Questo lavoro è supportato dalla convinzione comportamentista nell’impossibilità di un accesso ai fatti psichici se non tramite un’interfaccia. L’uso delle immagini fotografiche come test proiettivo presuppone l’esistenza di una sorta di codice e di un sistema di corrispondenze tra le immagini e il loro significato. Le fotografie sono qui usate per formare le lettere di un alfabeto aperto, in cui le immagini si scartano via via fin che si trova quella giusta, come in una selezione naturale dei simboli. La volontà di formalizzare un insieme di segni trova nella fotografia un nuovo terreno, e rappresenta una sfida alle possibilità comunicative dell’uomo oltre il linguaggio
Un aspetto peculiare del lavoro con le foto, riguarda il lavoro con il lutto.
Il “lavoro del lutto” contempla un lavoro di disinvestimento libidico progressivo, che il soggetto esegue su “oggetti di memoria” relativi a persone decedute/che ha perso. Nel suo celebre “Lutto e melanconia“, Freud spiega come per compiere il lavoro del lutto debba essere effettuato uno spostamento di investimento libidico su un altro oggetto che non sia l’oggetto perso. Una sorta di ricollocazione libidica. Strutturalmente, tuttavia, l’uomo pare essere portato a mantenere per più tempo possibile l’adesione libidica verso l’oggetto (“gli uomini non abbandonano volentieri una posizione libidica”), e quindi il lavoro del lutto prende tempo e richiede dei passaggi (per esempio, Freud sottolinea, il sovra-investimento di tutti i ricordi e le aspettative connesse all’oggetto perduto, che devono essere uno per uno abbandonati). Solo allora, Freud scrive, “l’Io ridiventa in effetti libero e disinibito”. Ne abbiamo scritto qui. La fotografia di una persona che ci ha lasciati, in questo senso, diviene essa stessa uno strumento con cui possa essere promossa una “riattivazione“ del lavoro del lutto quando questo sia bloccato o complicato. I piani su cui può essere attivato un lavoro di elaborazione di questo tipo, sono 3: il contenuto della fotografia e gli individui in essa raffigurati quando presenti, la fotografia come oggetto in sè, il paziente in rapporto alla fotografia stessa.
Le domande da usare in psicoterapia, potrebbero essere, per esempio:
LUI/LEI:
OSSERVIAMO LA FOTO, E DESCRIVIAMOLA IN MODO GENERICO
IN CHE OCCASIONE E DA CHI É STATA SCATTATA?
OSSERVIAMO LA POSA ASSUNTA DAI PARTECIPANTI DELLA FOTO: COSA CI RACCONTA? PERCHÉ LE PERSONE HANNO ASSUNTO QUELLA POSIZIONE, TRA DI LORO?
COSA CI RACCONTA, DELLA PERSONA, LA FOTOGRAFIA? QUALE PARTE DELLA PERSONALITÁ DELLA PERSONA ESPRIME?
COSA SUCCESSE PRIMA O DOPO LO SCATTO? COSA CONTINUA A SUCCEDERE DOVE É STATA SCATTATA?
LA FOTO:
LA STORIA DELLA FOTOGRAFIA, IL PASSAGGIO DI MANO IN MANO DELLA FOTOGRAFIA
IO:
IL PERIODO IN CUI LA FOTOGRAFIA É STATA SCATTATA: CHE PERIODO ERA PER ME? COME STAVO IN QUEL PERIODO?
SE HO SCELTO QUESTA FOTO É PERCHÈ MI RAPPRESENTA: COSA C’É DI ME IN QUELLA FOTO?
DI QUELLO CHE MI ESPRIME LA FOTOGRAFIA, COSA VORREI TENERE?
Come si osserva, la fotografia diventa uno catalizzatore di pensiero, uno strumento in grado di portare la persona a lavorare su aspetti di sé e riguardanti la persona perduta, non facilmente raggiungibili attraverso il “solo” lavoro di associazione verbale.
Uno degli aspetti più complicati del “lavoro del lutto”, riguarda il difficile rapporto del paziente con un’immagine della persona deceduta cristallizzata in una forma stereotipata, parziale; spesso questo ha a che fare con la tipologia di rapporto che il paziente deteneva con la persona quando questa era ancora in vita. Il lavoro fotografico aiuta in questo senso a completare la rappresentazione della persona che si è persa, verso un’ideale “risoluzione” del rapporto -nell’idea che il lutto “complicato” sia dovuto a un difficile rapporto del paziente con la rappresentazione della persona estinta, in ragione spesso di un rapporto consumatosi in maniera difficoltosa, o insoddisfacente, quando la persona fu in vita.
Molteplici progetti fotografici indagano il lutto; oltre agli aspetti sopra citati, riguardanti l’uso delle fotogafie come “oggetto di transizione” in grado di evocare e aiutarci a elaborare un oggetto solamente interno, alcuni progetti riguardano il tentativo di esprimere eventi interiori di natura emotiva difficilmente esprimibili a parole. Pensiamo per esempio cosa possa significare fotografare il “vuoto” lasciato da una persona cara scomparsa, o i particolari riguardanti lui/lei quando fu ancora in vita: si tratta di usare in questo caso il mezzo fotografico come strumento in grado di simbolizzare e in un certo senso elaborare elementi emotivi poco traducibili, riguardanti la perdita, l’angoscia di separazione, la morte come limite al e del pensiero.
Una bibliografia esauriente consigliata dalla stessa Judy Weiser.