MARCO ROVELLI, LA POLITICIZZAZIONE DEL DISAGIO PSICHICO E UN PODCAST DI psicologiafenomenologica.it
Un'intervista a Marco Rovelli sul suo ultimo lavoro "Soffro dunque siamo"
I redattori del blog psicologiafenomenologica.it hanno avviato da poco un podcast condotto da Gianluca D’Amico, chiamato Cosedapazzi.
Nell'ultima puntata viene intervistato Marco Rovelli a proposito di un suo libro uscito di recente, Soffro dunque siamo. Rovelli in questa intervista si mostra bravissimo nel portare una lettura della sofferenza psichica integrata agli aspetti più sociali, cosa che, oggi, risulta essere preziosa, vista la tendenza a concentrare la problematicità psicologico/psichiatrica solamente su elementi individuali. Rovelli pone l’accento su uno degli elefanti della stanza della sofferenza mentale del presente, la comparsa di forme di psicopatologia direttamente collegate alla cultura della performance dominante e al senso di frammentazione e di scarsa tenuta sociale in cui siamo immersi.
Possiamo estrarre da questa intervista alcune riflessioni e spunti:
citando Mark Fisher, Rovelli osserva come occorra ri-politicizzare il disagio mentale, cosa che appunto Fisher sottolinea nel suo famoso Realismo Capitalista. Rovelli osserva come dagli anni ‘80 in avanti l’approccio alla salute mentale abbia intrapreso una direzione più biologista e individualistica (“io-centrica”), calata in un contesto economico fortemente neo-liberale (“se vuoi, puoi”, devi essere imprenditore di te stesso, etc.), che ha fatto collassare la lettura sociopolitica del disagio psichico che sembrava sopravvivere ancora fino agli anni ‘80
la necessità di ri-politicizzare il disagio psichico, diviene oggi ancora più urgente vista la natura dei disturbi psicologici più diffusi, che Rovelli collega al senso di frammentazione e scollamento sociale. Rovelli cita a questo proposito il fenomeno noto degli hikikomori (ne avevamo scritto qui), che andrebbe inteso come una diserzione dai diktat culturali incentrati sulla produttività e sulla performance, ma anche il disturbo di panico, sempre più diffuso, leggendolo come una crisi parossisitica di solitudine -percepita come estrema-, sulla scia di altri autori come Francesetti, conosciuto appunto per la sua lettura peculiare del panico (ne avevamo scritto qui: Francesetti interpreta il panico come una forma estrema di ansia da separazione)
Rovelli osserva come sia in corso un cambio di paradigma culturale, che potremmo sintetizzare con l’immagine di un “Edipo che lascia il posto a Narciso”, o nel passaggio “dal paradigma della colpa a quello della vergogna”. Rovelli giustamente osserva come il modello educativo “tradizionale” basato sulla dicotomia permesso/vietato, (anche) grazie ai movimenti sociali di fine anni ‘60 e degli anni’70 abbia lasciato posto a un modello incentrato sulla responsabilità individuale, passando a una dicotomia diversa, legata alla possibilità (possibile/impossibile). Quest’ultimo modello, oggi in pieno effetto, consegna all’individuo la piena responsabilità sul suo stesso successo/fallimento, dando vita tuttavia a nuovi fantasmi (il fallimento, la vergogna di non riuscire, di essere escluso). Il tutto, di nuovo, all’interno di un contesto iper-produttivistico, dove gli individui tendono ad auto-sfruttarsi, come avessero introiettato quel “padre” che prima combattevano all'“esterno" (in questo senso Rovelli osserva come questa sia una società, un tempo “post edipico”). Sull’auto-sfruttamento avevamo scritto qui a proposito di Byung Chul Han.
Il focus sul “numero” e sulla "performance", sembra aver penetrato anche l’ambiente universitario e scolastico, trasformandolo da luogo di “apertura sul futuro” a luogo di “ansia”
Rovelli porta alcuni spunti di lettura, come i lavori di Alain Ehrenberg o un testo di fine anni ‘70 di Christopher Lasch (questo), strettamente attuali.
Un podcast da non perdere, raggiungibile qui:
(R. Avico)