OTTOBRE 2024: POPMed #38
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1. Quando l’impulsività prende il sopravvento: un viaggio nella mente schizotipica.
Immagina di trovarsi in un contesto quotidiano e dover fermare un'azione improvvisa, come rispondere di scatto a un messaggio inappropriato. Per molte persone con schizotipia positiva, questo controllo degli impulsi può essere compromesso. La schizotipia positiva, caratterizzata da tratti come il pensiero magico e idee di riferimento, sembra legarsi all’impulsività motoria in modi che solo ora cominciamo a comprendere. Ma cosa succede nel cervello? Questo studio cerca di rispondere esplorando la rete di attenzione ventrale (VAN), cruciale per l’inibizione degli impulsi.
I ricercatori hanno impiegato la risonanza magnetica funzionale (fMRI) per esaminare come la VAN rispondeva durante un tipico Go/No-Go task, un test classico usato per misurare il controllo inibitorio. Se non sei familiare con questo task, dai un'occhiata a questo video esplicativo che ti porta dentro il mondo della neuroscienza comportamentale. Gli individui con schizotipia positiva sono stati confrontati con un gruppo di controllo per vedere come il loro cervello processava le istruzioni di fermare o eseguire un'azione.
I risultati hanno rivelato che i partecipanti con schizotipia positiva mostravano un’attività anomala nella VAN, suggerendo difficoltà nel disattivare determinate aree del cervello. Questo malfunzionamento può portare a problemi di gestione degli impulsi e decisioni rapide inappropriate e questa alterazione spiega perché spesso chi soffre di schizotipia positiva manifesta comportamenti impulsivi o reattivi.
Questi risultati offrono un’importante opportunità di intervento. Comprendere come la VAN funzioni in modo anomalo nei pazienti con schizotipia potrebbe portare a sviluppare terapie di neurofeedback, che permettono al paziente di "allenare" il proprio cervello a inibire meglio gli impulsi, come un videogioco che "premia" il cervello per aver fatto la scelta giusta. Questo studio si inserisce in un campo in continua evoluzione, in cui stiamo scoprendo come la schizotipia non sia solo una "versione minore" della schizofrenia, ma una condizione a sé con meccanismi neurobiologici specifici. La possibilità di trattare i sintomi attraverso interventi mirati è una delle direzioni più promettenti della ricerca.
Eccovi l’articolo:
2. Empatia spezzata: l'Alzheimer e la sua impensabile ombra.
L'Alzheimer non solo corrode i ricordi, ma silenziosamente spegne anche una delle nostre capacità più preziose: l’empatia. L’empatia affettiva (la capacità di sentire le emozioni altrui) e quella cognitiva (comprendere i sentimenti altrui) declinano gradualmente durante il decorso della malattia. Questo studio vuole svelare come questo processo avvenga e perché monitorare l’empatia potrebbe essere un modo nuovo per diagnosticare e trattare precocemente l’Alzheimer.
Lo studio ha coinvolto 150 individui in diverse fasi del continuum dell’Alzheimer, dai primi segni di declino cognitivo soggettivo (SCD) alla demenza conclamata. Sono stati usati questionari validati per valutare l'empatia e test neuropsicologici per misurare la memoria e altre funzioni cognitive. L’uso della fMRI ha permesso di osservare le aree del cervello coinvolte nella regolazione emotiva, come l'amigdala e la corteccia prefrontale; inoltre, il monitoraggio longitudinale ha permesso di valutare i cambiamenti nel corso del tempo.
I partecipanti con declino cognitivo soggettivo già mostravano segni di compromissione dell’empatia cognitiva. Nelle fasi avanzate della malattia, anche l’empatia affettiva risultava profondamente alterata, dimostrando un declino parallelo alla progressiva degenerazione delle strutture cerebrali coinvolte nella gestione emotiva. Questo dato suggerisce che il monitoraggio dell'empatia potrebbe essere un valido indicatore precoce della malattia. Qui trovi un breve video sui segni precoci che fungono da campanelli d’allarme. I risultati indicano che l’empatia potrebbe essere utilizzata come biomarcatore precoce dell’Alzheimer, favorendo diagnosi più tempestive. Inoltre, terapie mirate all’empatia (come la terapia con animali assistiti o la musicoterapia) potrebbero rallentare la progressione della malattia. Se sei curioso di saperne di più su come la terapia con animali generi miglioramenti su pazienti affetti da Alzheimer clicca qui.
Negli ultimi anni, l’empatia è stata riconosciuta come un elemento centrale nel benessere psicologico dei pazienti con Alzheimer. Questo studio aggiunge una nuova dimensione all’approccio clinico: oltre ai classici test di memoria, monitorare l’empatia potrebbe diventare un aspetto fondamentale nella diagnosi e nel trattamento. La ricerca su questi aspetti progredisce rapidamente, e molti esperti ritengono che le terapie empatiche potrebbero rivoluzionare il trattamento della demenza nei prossimi anni.
Eccovi l’articolo: