RECENSIONE DI “CONVERSAZIONI DI TERAPIA BREVE” DI FLAVIO CANNISTRÁ E MICHAEL F. HOYT
Con un estratto dal testo su 9 logiche di intervento clinico
Il volume "Conversazioni di terapia breve" esplora i temi della psicoterapia breve e “a seduta singola” per via di una trascrizione di un serie di dialoghi, intrattenuti in momenti diversi, tra Flavio Cannistrà e uno dei suoi mentori, Michael Hoyt.
La forma intervista rappresenta un modo agevole per introdursi a un tema: in questo caso abbiamo la possibilità di sentire raccontata la teoria della psicoterapia breve e la teoria a seduta singola da parte di uno dei suoi originatori, a sua volta in debito verso altri della scuola di Palo Alto, che puntualmente troviamo citati nel testo.
Si ha così l’opportunità di scoprire molti nomi “minori” della teoria della psicoterapia breve, con la possibilità di approfondire i diversi approcci.
La Scuola di Palo Alto, e nello specifico un luogo che oggi esiste solo nella forma di fondazione, il Mental Research Institute, ha a partire dagli anni ‘60 introdotto sulle scena della psicoterapia mondiale moltissime innovazioni, che sarebbero state destinate a restare.
La psicoterapia sistemica, la psicoterapia breve, quella a seduta singola, la scuola di Nardone in Italia, devono tutto agli incredibili anni, fruttuosi, dei “maestri” originatori -che in questo libro troviamo citati più volte.
Un tratto peculiare di quel gruppo di individui e di coloro che ne hanno raccolto il testimone nella ricerca in psicoterapia, è un’incredibile umiltà intellettuale associata al pragmatismo americano, insieme al coraggio di mettere in discussione l'ortodossia (che in quegli anni era rappresentata dall’Europa e dalla psicoanalisi). Di quell’umiltà, di quell'apertura e di quel pragmatismo parla anche Andrea Vallarino in un suo volume recentemente pubblicato, in particolare rispetto alla figura di Paul Watzlawick.
Nel corso della lettura di “Conversazioni di terapia breve” si apprendono molti aspetti della psicoterapia a seduta singola, in primis l’idea che “a seduta singola” non vuol dire che il percorso con un "cliente" (come preferiscono chiamarlo) si limiti effettivamente a un singolo incontro: se mai, l’idea è che una singola seduta possa essere “autoconclusiva” e che si possa lavorare con la persona perché quest'ultima possa trarne giovamento -o un motivo di trasformazione. Viene data estrema importanza al concetto di empowerment del paziente, e che un buon parte del lavoro venga fatta dal paziente stesso, con risorse che tocca al terapeuta evocare e promuovere.
In generale troviamo riferimenti a pratiche comuni nelle diverse scuole di psicoterapia breve, con però alcune differenze di razionale di intervento, che Cannistrà (che su POPMed avevamo già intervistato, qui) non manca di esplicitare.
Il rischio di semplificare troppo la complessità del portato del paziente viene fugato qui da un approccio orientato a un "minimalismo clinico” che vuole intervenire con quello che funziona e dove serve, in modo strategicamente orientato.
Si tratta di coinvolgere attivamente il paziente nel lavoro clinico, muovendo da un’alleanza forte e procedendo per obiettivi, il più possibile aderenti alle risorse portate in seduta.
Altrove abbiamo più volte intervistato e coinvolto Andrea Vallarino, e chi avesse letto alcuni dei contenuti che lo riguardavano potrà riconoscere nell’approccio di Cannistrà e Hoyt un’uguale attenzione al presente e a quelle che universalmente (in terapia breve o breve/strategica) vengono chiamate “tentate soluzioni”, nell’idea che il paziente faccia di tutto per migliorare, spesso però complessificando il suo stesso vissuto, e bloccandosi in modalità di pensiero disfunzionale. Si pensi per esempio al modello sul controllo per il panico -problema diffusissimo e frequentemente incontrato dagli operatori della salute mentale- ingenerato da stratificazioni di storture cognitive, paradossalmente atte a controllare i sintomi stessi.
I clinici di Palo Alto, come leggiamo in questo libro, sono stati da sempre dei fini osservatori della psicologia umana, nel tentativo di estrarne “modalità patogene” con un approccio estremamente pragmatico: il concetto di tentata soluzione è solo uno dei tanti, ma pensiamo per esempio al problema del doppio legame, ai paradossi legati all’ipercontrollo, alla natura essa stessa paradossale (a volte) della psicologia umana.
Per Cannistrà e Hoyt si tratta di aiutare il paziente a stare meglio, e stare meglio in modo rapido, soprattutto quando fortemente sofferente.
La terapia a seduta singola o breve pare adattarsi meglio a situazioni cliniche peculiari, come quando esista un eccesso di ragionamento o la persona si trovi incastrata in schemi di pensiero disfunzionali; leggendo questo volume viene tuttavia complesso immaginare una terapia a seduta singola con un paziente fortemente depresso o melanconico, o ipotizzare un intervento su un disturbo grave di personalità, al di là delle “prescrizioni” che i terapeuti di questa scuola solitamente consegnano al paziente. Con pazienti affetti da disturbi di natura affettiva, ci si potrebbe chiedere il ruolo -come sappiamo centrale- della relazione (al di là della “semplice” alleanza).
A fine lettura si ha in ogni caso la sensazione che esista un’apertura degli autori a una messa in discussione e verso un apprendimento “continuo”, cosa di rado presente in libri provenienti da altre scuole di pensiero.
Molto interessante e bella la definizione di logica, e l’accento sulla distinzione dal concetto di strategia: il terapeuta breve e quello a seduta singola si avvarranno di “logiche” di intervento -più flessibili e indeterminate delle strategie, ma altrettanto efficaci- in grado appunto di adattarsi alla complessità portata dal cliente.
Pubblichiamo in toto un estratto dal volume, che raccoglie 9 logiche di intervento da applicare in vari casi, una variazione di un articolo già apparso qui.
Anche chi non fosse interessato al tema terapia breve, potrà trarne spunti di interesse e modalità pratiche di intervenire con uno dei suoi pazienti (o su se stesso).
Buona lettura!
[...]
RISULTATI: LE NOVE LOGICHE
Il risultato di questo lavoro iniziale è l’identificazione di nove logiche. Di seguito specificheremo alcune delle tecniche sotto ciascuna logica, ma è importante innanzitutto capire che una tecnica può essere inclusa in logiche diverse: infatti, è il modo in cui la tecnica viene utilizzata che fa la differenza. Negli esempi che seguono presenteremo sia tecniche formali che interventi più generici di aiuto nell’illustrare ciascuna logica, precisando che non intendiamo suggerire che un autore citato sia necessariamente il creatore o ideatore di un particolare intervento. Inoltre, non intendiamo dire che la logica/tecnica spiegata nell’esempio sia quella che risolve il problema (benché possa contribuire a farlo): lo scopo degli esempi è meramente esplicativo del funzionamento delle logiche.
Bloccare direttamente le azioni. Lo scopo principale di questa logica è bloccare direttamente uno o più comportamenti particolari che perpetuano il problema. “Direttamente” significa chiedere esplicitamente al paziente di smettere di fare una certa cosa: controllare, chiedere aiuto o consiglio, cercare una risposta (pensarci, chiedere ad altri o consultare diversi media), parlare del problema, aiutare qualcuno, dare suggerimenti. Molti interventi mirano a bloccare un determinato comportamento e quelli che rientrano in questa logica hanno lo scopo di bloccarlo attraverso una diretta richiesta di cessazione. Altre tecniche potrebbero invece bloccare il comportamento considerato problematico senza chiedere direttamente di farlo.
Ecco alcuni esempi di bloccare direttamente le azioni:
Il comportamento ipocondriaco è mantenuto dal continuo andare da medici e specialisti per accertare un presunto problema. Nella terapia breve strategica (Nardone, 1996) si chiede quindi ai pazienti di sospendere qualsiasi visita medica.
Il comportamento ritualistico di certe ossessioni e compulsioni spesso comporta l’intervento di persone presenti, che aiutano così a far persistere il problema. Quest’ultime devono quindi essere avvertite di smettere di aiutare (Pietrabissa et al.,2016).
Il terapeuta può anche chiedere ad altri di interrompere determinati comportamenti in
modo da aiutare il paziente. «Ad esempio, il gruppo di terapia strategica modello breve MRI potrebbe aiutare la famiglia della persona depressa a smettere di aggravare la situazione interrompendo gli sforzi (da parte della famiglia) ‘per tirarla su di morale’» (de Shazer, 1982, p. 60). A sua volta, questa «‘interruzione della cura’ può aiutare la persona depressa a diventare meno depressa o addirittura aiutarla a smettere di essere depressa del tutto» (de Shazer, 1982, pp. 28-29).
Creare avversione. Questa logica include quelle tecniche volte a stimolare nel paziente un’avversione verso qualcosa, come un comportamento, una forma di interazione o relazione e così via, in modo da portare a interrompere spontaneamente quel comportamento o impedirne l’attuazione. Il terapeuta non chiede direttamente al cliente di smettere di fare qualcosa o di cambiare le sue percezioni, ma può utilizzare vari interventi per persuaderlo a farlo.
Alcuni esempi di creare avversione sono:
Una ordalia potrebbe essere usata come un particolare esempio di questa logica. Nel discutere come trattare l’insonnia, Martiny (1989) ha scritto che «un compito assegnato può essere utilizzato per rendere più desiderabile dormire piuttosto che svolgerlo» (p. 130). Lo scopo di assegnare un’“ordalia” (Haley, 1984; Hoyt, 2019a) è di rendere più spiacevole eseguire il comportamento sintomatico di quanto lo sia lasciarlo andare.
La cosiddetta tecnica del come peggiorare (Fisch et al., 1982; Nardone & Watzlawick, 1993) è un altro esempio in cui il terapeuta chiede al cliente di pensare a tutte le cose che può fare per peggiorare (anziché migliorare) una determinata situazione/problema/sintomo e così via. In questo modo, la tecnica viene utilizzata per creare un’avversione ai comportamenti/pattern ad essa correlati in modo che il cliente li interrompa spontaneamente. La “Nightmare Question” di Ruess (1997) (“Immagina che quando ti sveglierai le cose vanno peggio!”) è un ottimo esempio. Austin (2019) descrive come una madre abbia messo una foto dei figli nell’armadietto dove teneva la sua scorta di cocaina, in modo che non potesse continuare a dire a se stessa che i bambini non fossero coinvolti e quindi non influenzati dal suo abuso di droghe; Hoyt (2019a) riferisce anche di aver suggerito a un uomo, che stava avendo dei flirt con l’idea del divorzio, a visitare la pancake house locale di domenica mattina, per vedere tutti i padri e i bambini infelici mentre facevano colazione durante le loro visite del fine settimana, dato che «comunque è questa la direzione in cui [il paziente] si stava dirigendo».
La tecnica della ristrutturazione, che porta a «dare una nuova struttura alla visione del mondo concettuale e/o emozionale del soggetto e porlo in condizione di considerare i ‘fatti’ che esperisce da un punto di vista tale da permettergli di affrontare meglio la situazione» (Watzlawick et al., 1974, tr. it. pp. 101-102), potrebbe essere utilizzata per creare avversione se un comportamento fosse visto come qualcosa di indesiderabile (vedi anche Paoli, 2014).
Creare consapevolezza. Questa serie di interventi è utile per aiutare il cliente a prendere consapevolezza di qualcosa, che generalmente potrebbe essere una risorsa o un punto di forza positivo/utile oppure un comportamento/atteggiamento problematico. Gli interventi mirati ad attivare i punti di forza del cliente (Soo-Hoo, 2018, 2019) rientrano in questo tipo di logica. Nel richiamare la consapevolezza a comportamenti o atteggiamenti problematici, il terapeuta non intende necessariamente creare antipatia verso qualcosa con l’idea di interromperlo. La ristrutturazione è un esempio di tecnica che può facilmente rientrare in più logiche a seconda dell’utilizzo che ne viene fatto. Ancora una volta, ciò che determina la categorizzazione di una tecnica in una logica piuttosto che in un’altra è l’intenzione del terapeuta, il fine che si propone di raggiungere con quella tecnica, in quel momento.
Come ha notato Soo-Hoo, mentre Duncan e colleghi (2009) hanno scoperto che il 30% della differenza dei risultati in riguardo al trattamento potrebbe essere attribuito a “fattori di relazione”, hanno anche scoperto che il 40% era correlato a “fattori del cliente” come per esempio la sua forza, le sue risorse e la sua motivazione (perlomeno non immediatamente): questa logica potrebbe infatti essere utilizzata anche per rendere qualcuno consapevole dei comportamenti (positivi / negativi) degli altri.
Il terapeuta può creare consapevolezza in maniera più o meno diretta, ad esempio può richiamare direttamente l’attenzione su risorse positive o comportamenti disfunzionali, oppure può utilizzare un approccio socratico all'osservazione (Cannistrà, 2018b), oppure infine può usare metafore, aforismi o storie (Lankton & Lankton, 1983).
Alcuni esempi di creare consapevolezza includono:
Quando un terapeuta ricava delle informazioni sugli hobby e gli interessi di un cliente (come parte della tecnica dell’utilizzazione - Battino & South, 2005; Erickson, 1980; Short et al., 2005); quando un terapeuta di TBCS intraprende il solution talk (si veda Furman & Ahola, 1992; Walter & Peller, 1992); quando, à la Insoo Kim Berg, chiede: “Wow, come hai fatto?!”; o quando i terapeuti MRI Schlanger e Krohner dichiarano:m“I nostri clienti sono capaci e forti”.
I complimenti sono usati spesso nella TBCS anche per creare consapevolezza su cose specifiche. Ad esempio, «evidenziano le azioni che il [paziente] ha già intrapreso per raggiungere una soluzione […] inquadrano la responsabilità e il merito del cambiamento come un risultato del [paziente] stesso. In un clima favorevole, il supporto e i complimenti si combinano per dare [ai pazienti] un senso di auto efficacia, emancipazione e motivazione» (Burg & Mayhall, 2002, p. 83).
La ricerca delle eccezioni (de Shazer et al., 1986), un’altra caratteristica della TBCS, corrisponde a una serie di domande e/o prescrizioni tra le sedute «progettate per scoprire cosa succede quando il problema non si verifica e come il [paziente contribuisca a questa eccezione» (p. 215). Questo intervento può essere utilizzato per aiutare il cliente ad essere più consapevole di “cosa funziona” (cioè, cosa i clienti e/o il loro ambiente stanno facendo che risulta essere utile).
Evocare nuove risorse. Questa logica include tecniche progettate per creare o amplificare risorse, capacità e abilità nel cliente, introducendo cambiamenti (piccoli o grandi) nelle loro percezioni e comportamenti, spesso con l’idea di iniziare a fare o a guardare qualcosa in un modo nuovo, in modo tale che sembra che stiano creando qualcosa dove prima non c’era niente. Il terapeuta può indirizzare il cliente a farlo oppure il cliente stesso può provare a suscitarlo in un modo più indiretto.
Alcuni esempi di evocare nuove risorse sono:
la tecnica della “domanda del miracolo” (de Shazer, 1988), con cui si chiede al cliente di immaginare un futuro senza problemi e di implementare i comportamenti che il cliente immagina porterebbero a tale futuro. A volte, il terapeuta può chiedere direttamente al cliente di fare qualcosa come se il miracolo fosse già accaduto, mentre altre volte può semplicemente chiedergli di notare cose nuove, diverse o semplicemente “migliori” che accadranno nei giorni successivi (Ratner, George, E Iveson, 2012).
La tecnica della scala (Berg & de Shazer, 1993) può funzionare in maniera simile. Un modo per usarla è quando il terapeuta chiede ai clienti di notare, fra una seduta e un’altra, tutte le cose che diranno loro di trovarsi su un gradino più alto della scala rispetto a quello su cui sono attualmente. Come hanno scritto Keeney e Keeney (2019): «I professionisti sono anche chiamati ad aiutare i clienti a creare qualcosa di straordinario da quello che può sembrare ‘un niente’… ogni seduta è un’opportunità per svelare il mistero del senso della vita in maniera più vasta, che rimane nascosto quando è contenuto all’interno di strutture impoverite e contesti ridotti» (p. 142).
Molti interventi “come se” (Watzlawick, 1987) seguono questa logica. Il terapeuta chiede al cliente di fare / immaginare / parlare di qualcosa come se fosse presente una particolare condizione (per esempio, agire come se meritasse l’amore degli altri; come se sentisse più fiducia in sé stesso etc.) con l’idea di produrre nuovi comportamenti e/o nuovi significati.
Incrementare per ridurre. Molte tecniche e interventi di terapia breve sono progettati per chiedere al cliente di fare qualcosa di più (ad esempio, un particolare comportamento) con il preciso intento di ridurlo eventualmente. Questo è lo scopo generale degli interventi paradossali, in cui «il comportamento che il cliente vuole cambiare o eliminare è prescritto o incoraggiato dal terapeuta» (Weeks & L’Abate, 1982, p. 6). Negli scritti del Brief Therapy Center di Palo Alto (Fisch et al.,1982; Fisch & Schlanger, 1999; Watzlawick et al., 1974; vedi anche Loriedo & Vella, 1992, e Nardone e Watzlawick, 1993) c’è un uso frequente di interventi paradossali, ossia una categoria di interventi che il terapeuta fa con l’idea (la logica) di aumentare per ridurre un comportamento, un sentimento, un sintomo e così via. Rosen (1982) ha scritto che «Haley ha anche sottolineato che le caratteristiche principali della terapia ericksoniana includono ‘incoraggiare la resistenza’, ‘fornire un’alternativa peggiore’…‘amplificare una deviazione’ e ‘prescrivere il sintomo’» (p. 33). L’idea del terapeuta è di «annullare una cosa accrescendola sino al punto di rottura. Alimentare per ridurre. Provocare per inibire» (Nardone, 2003, p. 71), a volte con il proposito di «rendere volontarie le reazioni spontanee che vogliamo annullare» (ibid.), altre volte perché «si esibisce una cosa per celarla» (p. 75).
Alcuni esempi di incrementare per ridurre sono:
La tecnica della peggiore fantasia (Haley, 1985; Nardone & Watzlawick, 1993) in cui si chiede al cliente con attacchi di panico di provare ad aumentare la sensazione di ansia, ottenendo come risulta una sua conseguente riduzione. Weakland e colleghi (1974) scrissero: «Con i nostri pazienti sottolineiamo praticamente di continuo l’importanza di ‘andare piano’ al termine della seduta e, quando ci portano un miglioramento in quella successiva, reagiamo con sguardo preoccupato e affermiamo: ‘Penso che le cose si stiano muovendo un po’ troppo velocemente’. Facciamo la stessa cosa anche in modo più implicito, enfatizzando la necessità di raggiungere piccoli obiettivi o sottolineando i possibili svantaggi di un miglioramento. ‘Vorresti essere più produttivo a lavoro, ma sei pronto a gestire il problema dell’invidia dei tuoi colleghi?’. Tali avvertimenti promuovono paradossalmente un rapido miglioramento, riducendo l’ansia per il cambiamento e aumentando il desiderio del paziente di andare avanti per contrastare l’apparente ed eccessiva cautela del terapeuta» (p. 161).
Hoyt e Cannistrà (2019) descrivono un caso esemplare in cui a qualcuno viene chiesto di aumentare (pensandoci sempre di più) immagini ossessive come un modo per ridurle completamente.
Piccoli cambiamenti. Questa logica include quelle tecniche volte a risolvere un problema implementando piccoli cambiamenti, incrementali o decrementali. Si tratta di un tipo di intervento molto tipico in diversi approcci di terapia brevi. Milton Erickson, per esempio, ha dichiarato: «Vorrei far migliorare [il problema] molto gradualmente. Non appena ottenuto il minimo cambiamento, la strada sarebbe aperta per un cambiamento più ampio» (come citato in Haley, 1973, p. 291). Ugualmente, Haley (1982) ha scritto: «il piccolo cambiamento porta invariabilmente a uno più grande. Come ha detto Erickson, se vuoi ottenere un grande
cambiamento dovresti chiederne uno piccolo» (p. 23). Al MRI, Weakland e colleghi (1974), hanno similmente affermato: «In generale, sosteniamo che il cambiamento può essere ottenuto più facilmente se l’obiettivo è ragionevolmente piccolo e chiaramente indicato. Una volta che il paziente ha sperimentato un piccolo ma definitivo cambiamento nella natura apparentemente monolitica del problema, l’esperienza lo porterà ad ulteriori cambiamenti auto-indotti, sia rispetto al problema che, spesso, anche in altre aree della sua vita» (p. 150).
Le ragioni per seguire questa logica possono essere molteplici: la richiesta del paziente è composta da diversi passaggi, da affrontare uno alla volta; risultati troppo rapidi o troppo grandi possono spaventarlo o metterlo in una condizione sfavorevole; o, più genericamente, il terapeuta ha delle ragioni per cui deve procedere lentamente. Chiedere ai pazienti di fare
qualcosa che non richieda uno sforzo eccessivo produce quindi cambiamenti in maniera graduale, come per esempio evidenzia anche Yakpo (1997) nel trattamento della depressione, dove sottolinea l’importanza di chiedere al cliente di fare dei piccoli passi, suddividendo attività complesse in piccoli comportamenti.
Alcuni esempi di piccoli cambiamenti sono:
La tecnica delle piccole violazioni (Nardone & Portelli, 2005, 2013), utilizzata ad esempio con il disturbo ossessivo-compulsivo, consiste nel chiedere al cliente di fare volontariamente piccole violazioni, inserire piccole differenze nei suoi rituali o comportamenti compulsivi, al fine di sovvertirli e produrre un cambiamento graduale;
Chiedere a un cliente insicuro, che ha difficoltà a esporsi per paura di ricevere un rifiuto, di mettersi ogni giorno nella situazione di ricevere da qualcuno un “no” di modeste dimensioni, al fine di renderlo “immune”.
Rafforzare la relazione. Alcuni interventi di questo genere sono essenzialmente progettati per rafforzare l’alleanza terapeutica, sebbene molti altri possano raggiungere questo risultato come “effetto collaterale”. Questa è l’unica delle nove logiche che non intende produrre direttamente un risultato terapeutico; tuttavia, è essenziale in tutti quei casi in cui senza una forte relazione il cliente non farebbe quanto prescritto. L’intenzione del terapeuta potrebbe essere quella di aumentare la fiducia o la speranza del paziente verso la terapia, la sua efficacia o le capacità del terapeuta. Potrebbe anche essere quella di rassicurare il cliente sul fatto che la terapia è “un luogo sicuro”, ad esempio assicurando a un adolescente che tutto ciò che viene detto rimarrà in quella stanza. La relazione/alleanza terapeutica, che si compone di diverse parti (Norcross, 2011), è uno dei fattori più importanti per determinare l’efficacia della terapia e di questa tecnica sugli interventi.
Alcuni esempi di rafforzare la relazione sono:
La tecnica del caro dottore (Nardone, Verbitz, & Milanese, 1999/2005) che chiede al cliente di scrivere ogni sera una lettera al terapeuta parlando di sé, dei suoi problemi, della sua giornata e di qualsiasi altra cosa è nella sua mente. Esistono molte tecniche di scrittura (ad esempio, “i diari”) che vengono utilizzate per migliorare l’alleanza terapeuta-cliente.
Assumere una posizione one-down (Watzlawick, Beavin, & Jackson, 1967) potrebbe essere fatto intenzionalmente per migliorare la relazione (Fisch et al., 1982; vedi Hoyt, 2019b). John Weakland del Mental Research Institute (MRI) è stato un vero maestro al riguardo: «mettendosi one-down, Weakland disarma e mette a loro agio le persone altamente critiche, sospettose e supponenti» (Green, 1995, p. 232).
L’umorismo potrebbe essere utilizzato per rafforzare la relazione, favorendo il rilassamento e il comfort del paziente (o, seguendo una logica diversa, per trasmettere un messaggio e creare così consapevolezza – vedi Hoyt & Andreas, 2015).
Spostare l’attenzione. Molte tecniche sono progettate per spostare l’attenzione del paziente e in generale questa categoria include tecniche che chiedono ai pazienti di fare una certa cosa impedendo loro (“distraendoli”) di farne un’altra che terrebbe in vita il problema. Il terapeuta può usare questa tecnica quando pensa che chiedere direttamente ai clienti di fare qualcosa possa essere troppo per loro.
Alcuni esempi di spostare l’attenzione sono:
Un evento casuale pianificato (Watzlawick, 1997) può essere utilizzato quando un terapeuta chiede al cliente di fare qualcosa con l’idea di ottenere un altro risultato, concentrandosi sul dito per raggiungere la luna, o con l’idea di «solcare le acque all’insaputa del cielo» (Nardone, 2003, p. 36).
Quando Erickson (Rosen, 1982) chiese a un cliente che aveva paura di attraversare la strada di inviargli una cartolina stava spostando la sua attenzione su un compito che poteva svolgere (inviare una cartolina), permettendogli in questo modo di compiere qualcosa che aveva grandi difficoltà a fare (cioè attraversare la strada).
La tecnica del diario di bordo (vedi Nardone & Watzlawick, 1993), in cui alla persona in stato di ansia acuta viene chiesto di compilare un diario in quel preciso momento: questo sposta l’attenzione dal monitoraggio delle risposte fisiologiche (battito cardiaco accelerato, tremori, sudorazione etc.), la quale non farebbe altro che aumentare tali risposte, a un compito completamente diverso (compilare un diario), consentendo così alle risposte fisiologiche di normalizzarsi autonomamente.
Esprimere ed elaborare. Quest’ultima categoria comprende tutte quelle tecniche che mirano ad esprimere e/o elaborare una particolare esperienza nei casi in cui il problema è mantenuto della ritenzione continua ed eccessiva di aspetti legati ad essa (ad esempio, sentimenti di rabbia o dolore inespressi). Le tecniche che seguono questa logica portano all’emergenza di vari sentimenti: l’intenzione del terapeuta non è di rendere il cliente più consapevole (logica del creare consapevolezza), né di “interpretare” qualcosa, ma piuttosto di aiutarlo ad affrontare e far elaborare quelle esperienze che danno vita a pensieri, azioni e sentimenti molto intensi.
Alcuni esempi di esprimere ed elaborare sono:
Le lettere di rabbia (Cagnoni & Milanese, 2009), in cui alla persona con sfoghi incontrollabili viene chiesto di scrivere quotidianamente delle lettere indirizzate all’oggetto della sua rabbia, con il risultato di ridurre la stessa e i comportamenti impulsivi.
Una tecnica simile è il romanzo criminale (Cagnoni & Milanese, 2009) spesso utilizzato per il disturbo da stress post-traumatico, in cui viene chiesto al cliente di riscrivere la scena del trauma.
Budman e Gurman (1988) suggeriscono il regrieving, ovvero «un ‘rivivere’ il lutto in modi fortemente emotivi, ad esempio scorrendo le fotografie del defunto, visitando luoghi significativi, come la tomba di un caro o il luogo di un trauma, o usare l’ipnosi per incoraggiare regressione temporale fino al momento del trauma o ancor prima di esso» (p. 88).
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