Abbiamo intervistato Francesca Belgiojoso, psicoanalista, a proposito dell’utilizzo dello strumento “fotografia” in ambito clinico.
Francesca ha svolto un periodo di formazione con Judy Weiser (di cui avevamo qui scritto in modo più esteso), e si occupa attivamente di formazione sul tema, sia in Italia che all’estero. Utilizza inoltre abitualmente la fotografia nel lavoro dal vivo e online: per queste ragioni ci è sembrato utile e interessante intervistarla.
La fotografia è un dispositivo che lo psicoterapeuta può utilizzare in differenti modi: come approfondisce la Belgiojoso in questa puntata di POPMed Talks, una delle modalità più utilizzate consiste nel chiedere al o alla paziente di scegliere alcune fotografie che abbiano per lui/lei un certo grado di salienza affettiva, un “punctum” che sappia triggerarlo/a per via di un impatto emotivo, e aiutarlo/a nel contesto della terapia a creare un contesto e una cornice di significato a quella stessa fotografia.
Una fotografia contiene molti elementi evocativi, dal contesto alla posa dei personaggi in essa contenuti, al panorama sullo sfondo, al momento in cui fu scattata, all’epoca in cui fu scattata, all’espressione degli individui ritratti, alla storia della fotografia stessa (chi la conserva? in che formato è stampata?).
Usare le fotografie internamente al lavoro di psicoterapia può rappresentare un valido strumento per complessificare gli argomenti affrontati con il/la terapeuta, per spingere a riflessioni ulteriori.
Come prima accennato, Judy Weiser parla di diversi modi e differenti tipologie di fotografie da usare in terapia; in particolare ne cita 5: vediamoli brevemente (da questo articolo).
Quasi tutti custodiscono album di famiglia o piccole raccolte di immagini fotografiche, dalle foto di classe ai ricordi di viaggio ecc. Questo primo gruppo di fotografie funziona come un rapido innesco del processo di rievocazione. Davanti a queste immagini ci viene chiesto normalmente di descriverne l’occasione, di ricordare gli eventi che le hanno accompagnate, di esprimere giudizi sulle persone e le cose rappresentate, stimolando l’apertura di un racconto autobiografico a cui ci si lascia andare con facilità. Mostrare le proprie foto di famiglia può servire alla ridefinizione della propria identità, permettendo di includere interpretazioni che vadano al di là della posa e della facciata. Spesso infatti le foto di famiglia sono costruite secondo criteri che esprimono spazialmente le relazioni sociali e di potere interne alla struttura della parentela: la coppia dei genitori e i membri più anziani in centro con ai lati i figli maggiori e in basso quelli più piccoli, collocate più in disparte, o distanti sullo sfondo, le persone che non fanno parte della famiglia biologica. Questa attività di descrivere le proprie foto è anche un gioco abbastanza comune nella vita quotidiana, dove tuttavia si addice più felicemente a chi ha intenzione di trasmettere un particolare messaggio, di tipo storico generazionale, oppure di costume e di appartenenza sociale. Pure, una tale attività presuppone negli altri una notevole capacità di ascolto il più delle volte simulata. Quello dell’album di famiglia è a tutti gli effetti un gioco linguistico che funziona bene entro limiti precisi, e cioè che i partecipanti siano effettivamente imparentati. La richiesta di giocare questo gioco di fronte all’analista farà emergere parole e atmosfere diverse.
Un secondo gruppo di foto che vanno selezionate sono quelle scattate di propria mano. Queste serviranno a sollecitare interrogativi in direzione introspettiva e potranno chiarire i motivi inconsci che hanno portato a scattare una foto in quel particolare istante, o far luce sull’esigenza inconscia soddisfatta da una certa inquadratura. Il semplice fatto di avere avuto con sé la macchina fotografica quel giorno e non un altro, il semplice gesto di portare l’obiettivo agli occhi, sono già di per sé elementi significativi. In questo tipo di foto il coinvolgimento emotivo può essere più o meno alto e variamente ricco di contenuti simbolici che sarà compito dell’analista portare in superficie. A questo livello comincia a divenire importante l’interpretazione di istanze di censura e di controllo, che però si rivelano cruciali in un terzo tipo di scatti: quelli che ritraggono la persona del cliente.
Questo terzo gruppo includerà autoscatti, fotoritratti e fototessere, in cui il volto è in primo piano e l’atteggiamento di chi è in posa comunica il sentimento destato davanti all’obiettivo. Roland Barthes ha così descritto nel suo libro La camera chiara quel senso di ansia e di timore che lo coglie allorché subisce una fotografia: «in quel momento io vivo una micro-esperienza della morte».5 Dall’osservazione di foto in cui il soggetto è ripreso a sua insaputa emergono i tratti di sé più nascosti, espressioni e gesti che, non essendo controllati al momento dello scatto, offrono indizi e appigli per l’interpretazione. Il fatto che questi ritratti accidentali siano piuttosto rari aggiunge un carattere di sorpresa e di fascinazione verso la propria immagine. In essi non si manifesta quella resistenza narcisistica implicata dal primo piano. È noto che quando un fotografo va in cerca di un’espressione il più possibile naturale sul viso dei suoi modelli, spesso lo fa scaricando numerosi rullini. Questo senz’altro aumenta la possibilità di buona riuscita, perché quando il soggetto si abitua alla macchina fin quasi a dimenticarsene allora le sue difese cadono. In questi casi la naturalezza è un effetto ottenuto a prezzo di artifici messi in atto dal fotografo: se riesce a distrarre i suoi modelli, a farli pensare ad altro, a metterli a proprio agio, è anche in grado di dirigerli come farebbe un regista con i propri attori.
Un quarto genere di fotografie utilizzato durante le sedute analitiche è costituito da foto scattate su indicazione del terapista. […]. Va anche detto che la fototerapia incoraggiando un uso artistico della macchina fotografica, mentre ottiene una preziosa testimonianza sulla personalità dell’autore, d’altra parte stuzzica la sua vanità e ne aumenta l’autostima.
La quinta e ultima tecnica di fototerapia si basa sulle foto facenti parte di una collezione ad hoc. Questo lavoro è supportato dalla convinzione comportamentista nell’impossibilità di un accesso ai fatti psichici se non tramite un’interfaccia. L’uso delle immagini fotografiche come test proiettivo presuppone l’esistenza di una sorta di codice e di un sistema di corrispondenze tra le immagini e il loro significato. Le fotografie sono qui usate per formare le lettere di un alfabeto aperto, in cui le immagini si scartano via via fin che si trova quella giusta, come in una selezione naturale dei simboli. La volontà di formalizzare un insieme di segni trova nella fotografia un nuovo terreno, e rappresenta una sfida alle possibilità comunicative dell’uomo oltre il linguaggio
Ci sono poi forme più creative di utilizzo della macchina fotografica: in alcuni casi si chiede al/alla paziente di usare il dispositivo fotografico per- creativamente- raccontare di sé o di aspetti della propria vita (si veda il primo citato articolo sull’utilizzo della fotografia per lavorare con il lutto).
In questa intervista Francesca (curatrice anche di questo canale youtube a tema) ci racconta del potere trasformativo e del valore simbolico di una fotografia “importante”, spazia su diversi aspetti di natura clinica e chiude il discorso con alcuni riferimenti bibliografici per introdursi alla questione (anticipiamo solo questo).
Buon ascolto!